Corpi reclusi, corpi che curano. Giocare per diritto, un modello di relazione tra genitori detenuti e figli

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Il racconto di Santino Cannavo’, presidente del comitato Uisp Messina e responsabile territoriale della cabina di regia di Giocare per diritto a Messina.

L’esperienza di questo progetto “Giocare per diritto” ha confermato che, oltre alle teorie e alle regole, sono i sentimenti a curare i corpi e le anime. Se poi gli attori inconsci che provocano “tempeste di emozioni” sono i figli, i bambini, i ragazzi il risultato è già raggiunto.

Sabato ore 7:00. Appuntamento in sede con gli operatori Uisp e i giovani del servizio civile per recuperare gli attrezzi sportivi che serviranno per giocare e animare la mattinata: palloni da basket, calcio, volley e poi cerchi, coni, delimitatori di spazio, reti, kit da basket e/o da minivolley. E ancora, le merendine, i succhi di frutta, le bottigliette d’acqua, le monoporzioni di patatine, ingredienti utili per una allegra merenda con papà e mamma. I nostri “strumenti” sono pronti, oltre alla voglia e la passione, per recarsi in “carcere”.

Tutti in macchina. Gli ultimi consigli, un breve riepilogo del programma della giornata e dopo poco ci troviamo davanti ai cancelli del carcere. Un saluto con gli operatori, i soliti controlli, la verifica dei materiali, il rilascio di chiavi, cellulari, borse e di tutto ciò che non servirà, dentro le cassette di sicurezza, infine, il passaggio dalle porte metal detector. Poi si supera la soglia. Si entra dentro uno spazio delimitato da mura.

Il carcere. Ci rechiamo nel campo di calcio, organizziamo i circuiti motori, predisponiamo gli attrezzi e aspettiamo. Le grida e il vociare dei bambini preannunciano l’arrivo delle famiglie. Sorrisi e strette di mano con i nostri operatori. I bambini più piccoli si lanciano sui palloni e iniziano a giocare. Le mogli si incontrano tra loro e parlottano in attesa dei loro mariti. Giungono i detenuti insieme agli operatori del penitenziario.

Abbracci, baci, carezze, sorrisi. Il tempo passa e dopo l’accoglienza si inizia a giocare, a divertirsi, a sudare insieme. I padri insiemi alle madri aiutano i figli più piccoli a superare i percorsi. I figli instancabili sollecitano i genitori a giocare.

I padri e le madri con i figli. Ore in cui si scorda la natura del luogo, si ricuce un rapporto genitori-figli, si diventa “coppia” davanti a quei bambini. Bambini e ragazzi che giocano ma che osservano noi, gli operatori, le “guardie”, gli “educatori” e scoprono che il carcere non è solo detenzione ma un luogo dove possono incontrare un “modello educativo” fatto di cura per loro e i loro cari: fratelli, sorelle, padri e madri.

Un volto diverso del carcere. L’altra faccia di una società che spesso ha privato quei bambini dei diritti universali. Bambini che vivono il più delle volte una povertà educativa, abitativa e sociale. Oggi in questa esperienza scoprono che c’è una società di cui fanno parte che si cura di loro. Un altro mondo è possibile. Lo disegnano alla fine della giornata con colori e matite sui fogli distribuiti dagli operatori. Disegni che guardano al futuro. Famiglie unite da mani congiunte.

Le ore passano e c’è l’addio. Tante lacrime, specialmente dei più piccoli, ma la certezza e la speranza di potersi rivedere.
“Papà ti vengo a trovare il prossimo sabato per giocare insieme, insieme alla mamma e al fratellino. Mi manchi. Sai sono stata brava a scuola, quando torni a casa?” Un tuffo al cuore.

 

Da quegli sguardi, gesti, parole dei detenuti ho immaginato pentimento. Ho voluto vedere il rammarico di chi, privato della libertà per un gesto sbagliato, assapora anche per poche ore la libertà degli affetti, quelli “congelati”, quelli che, quando le porte del carcere torneranno a richiudersi dietro le spalle dei propri cari, resteranno solo nelle loro menti e nel cuore, perché quei corpi saranno “fuori” e tu sarai “dentro”. Ancora per quanto ?
Ancora per poco o molto che sia ma “dentro”. Vittima dei tuoi errori. Ore e giorni per ripensare in cella.

Quei sentimenti curano. Quei “sabato” fanno pensare. Il progetto, “Giocare per diritto” ha avuto come obiettivo principale il sostegno alla genitorialità, il diritto/dovere di essere genitori e il diritto dei figli di avere un genitore presente anche durante uno stato di detenzione. Il gioco e l’attività motoria sono stati gli strumenti, insieme agli incontri e laboratori psicoeducativi in carcere e nelle scuole, per attivare il progetto.Durante gli incontri del sabato in carcere abbiamo utilizzato le pratiche dello sport sociale, una immagine meno nota dello sport, quella che nel gesto e nella pratica destrutturata, spontanea, irregolare, decontestualizzata dagli impianti sportivi, dalle omologazioni e regole mette i ” corpi in gioco”. I corpi fatti da muscoli, cervello e sentimenti senza alcuna distinzione di abilità, capacità motoria, di appartenenza sociale, di ruoli, di provenienza.

Corpi che si incontrano e si riconoscono per quella umanità che ci accomuna. Per quella natura biologica che ci ricorda che siamo tutti uguali. Il corpo è la presenza nel mondo e l’educazione è “fisica”, passa dal corpo. Troppe volte dimentichiamo che siamo corpi che vivono vite tanto diverse. Ma nel profondo siamo corpi con sensazioni, con ansie, con desideri, con ambizioni diverse.

Corpi che si incontrano nei sentieri della vita. Corpi che sbagliano. Corpi reclusi. Corpi che curano. Il carcere interrompe la vita dei detenuti, dei loro cari, dei loro figli. Il carcere è uno stop. Il carcere però può e deve essere l’inizio di un nuovo percorso, di una nuova vita. La società intera deve farsi carico della riabilitazione di chi ha sbagliato, non basta delegare alla sola struttura carceraria. Il terzo settore, l’associazionismo, ricopre un ruolo importante ed è indispensabile.

Giocare per diritto, nella pratica della Uisp di Messina, navigando a vista tra procedure, regole, sensibilità, disponibilità, ha mostrato una strada possibile, un’alternativa al “freddo colloquio”. Un modello  che a giudizio di chi lo ha vissuto nei vari ruoli di detenuto o operatore penitenziario, di coniuge del detenuto o figlio/a, di magistrato o operatore sociale, di educatore o direttore del carcere, è stato ritenuto valido.

Un modello che offre uno spazio e un tempo da vivere, dedicato ai figli. Un modello che ricuce e sana gli affetti familiari. Che obbliga a sentirsi genitori anche se reclusi. Figli anche se il padre o la madre stanno scontando una pena. Figli sicuri che quel genitore tornerà a casa più attento di prima ai loro bisogni, che capirà quanto si è perso ma, “guarito” , saprà ancora dare tanto a loro e alla società. Un’esperienza per dare forza al principio che il carcere deve essere sempre di più rieducativo.

 

 

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