Perché quando un bambino impara il mondo, solo una presenza accanto può dare conforto e sostegno

di

Maria, volontaria impegnata nello Spazio Infanzia Santa Rita

“Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio. Bisogna custodire la gente, aver cura di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore”. Papa Francesco.

 Raccontare un anno di vita in poche righe non è un’impresa semplice. Cercare di esprimere anche le emozioni, i legami, le sensazioni lo è ancora di meno.

Se ripenso a un anno fa, alle motivazioni che mi hanno spinto a scegliere di investire un anno della mia vita con il Servizio Civile, mi torna in mente il bisogno di fare qualcosa di veramente utile per gli altri. Dopo anni sui libri, la necessità era quella di scendere “in campo” e toccare con mano tutto quello che avevo solo teoricamente appreso. Misurarmi. Scoprire i miei limiti, approfondire le mie conoscenze, mettere a servizio le mie competenze e svilupparne di nuove, grazie all’esperienza e al confronto con colleghi più esperti.

Una possibilità di accrescimento professionale, pensavo un anno fa.

A pochi giorni dalla fine di questo percorso, questa premessa mi fa sorridere per quanto mi sembra ingenua. Perché per quanto le aspettative professionali siano state effettivamente soddisfatte, in realtà, la maggiore crescita è stata quella personale.

E mi è bastato passare la prima ora con i bambini per comprendere che tutto ciò che serviva davvero mettere in campo – oltre la professionalità – era il cuore, l’anima, la passione, l’affetto, gli abbracci e le emozioni. Che tutte le teorie sullo sviluppo psicologico infantile servono, ma non ti aiutano quando cerchi di spiegare a 14 piccoli nanetti che parlano 12 lingue diverse che la merenda si fa seduti e al bagno si va in fila e in classe non si corre.

E allora bisogna mettere tutto in discussione e trovare altri modi di comunicare e io ho imparato che per comunicare non servono per forza le parole, e ho imparato mille modi per farmi comprendere. Ho imparato che con un solo gesto si possono trasmettere un mare di messaggi, che negli abbracci c’è tutta l’approvazione e il bisogno di accudimento di cui ogni bambino ha bisogno, che un sorriso e un bacio sulla fronte sono il miglior buongiorno che si possa ricevere e che lo sguardo di una maestra che si sta arrabbiando perché le botte non si danno lo capisce al volo anche un bambino che parla solo l’arabo.

Ho imparato che una madre preoccupata di lasciare suo figlio per la prima volta con delle persone estranee la si può rassicurare solo con un sorriso davvero sincero e una mano sulla spalla, perché più di ogni discorso d’ispirazione antropologica o psico-pedagogica crea vicinanza e legame. Abbatte le distanze e crea fiducia.

“Andate in mezzo a loro e siate come loro”. Queste parole hanno risuonato in me come un mantra per tutto l’anno di Servizio. Ce le disse un parroco durante la formazione prima di iniziare il servizio civile. Andate in mezzo a loro e siate come loro. In quel momento non ne compresi bene il significato. A dirla tutta mi è sembrata anche un po’ spiacevole. “Ma loro chi?” mi sono chiesta. E poi mi sono accorta che in questa frase c’è tutto quello che serve.

“Siate come loro”, significa vestirsi di umiltà e lasciare appesi alle pareti di casa propria i titoli accademici, le etichette e i ruoli sociali che spesso ci fanno sentire superiori. “Siate come loro” significa che, prima di essere dottori, specialisti, psicologi, educatori, dobbiamo ricordarci di essere Umani, solo così possiamo “aver cura di ogni persona con amore”, come dice Papa Francesco.

Il mio anno di servizio civile è tutto qui. Nell’aver imparato a custodire, accudire, rispettare e (forse) trasformare, costruendo insieme. Con grazia. Con gentilezza. Perché ne resti viva la traccia e protetta la testimonianza. Perché quando un bambino impara il mondo, solo una presenza accanto può dare conforto e sostegno.

Dalla testimonianza di Maria, volontaria Apurimac 

 

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