TUTTA UN’ALTRA STORIA: i ragazzi della periferia genovese incontrano i migranti!

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Il tema dell’immigrazione oggi in Italia è al centro di un acceso scontro alimentato, negli ultimi tempi, dalla recrudescenza dei fenomeni di razzismo e di violenza nei confronti dei migranti. I toni si sono alzati e, nel rumore di tante voci che si sovrappongono, è difficile scorgere lo spiraglio di una convivenza pacifica e solidale nelle nostre città. Diventa importante nella confusione di visioni contrapposte – spesso rigidamente bloccate sulla medesima posizione e chiuse al dialogo – guardare alla vita delle persone che vengono in Italia, apprendere i loro nomi ed ascoltarne la storia. È un approccio umano che ci permette di conoscere l’altro e non considerarlo un nemico e che ci pone di fronte all’immenso dolore dei migranti.
Il problema dell’integrazione ha un’incidenza molto rilevante soprattutto in periferia, dove vivono tante famiglie di stranieri e dove la piaga della discriminazione si abbatte più crudelmente su bambini e adolescenti. La scuola, in tale contesto deve educare all’accoglienza e alla solidarietà per combattere la cultura dello scarto, che pone ai margini chi è considerato diverso o si trova in difficoltà.
Abbiamo voluto, al fine di sensibilizzare i giovani su questo importante tema, favorire l’incontro tra due ragazzi africani che hanno affrontato il difficile viaggio verso l’Europa e alcune classi dell’Istituto Comprensivo Voltri 2 nel quartiere del CEP. L’iniziativa, accolta con entusiasmo dagli insegnanti, ha rivelato l’estremo bisogno degli adolescenti di conoscere la realtà “senza filtri” – non veicolata dai social – e la grande sensibilità celata dietro la loro falsa arroganza.
È un’iniziativa che si colloca all’interno del progetto “Give teens a chance”. La scuola al centro della periferia” che l’Impresa Sociale “Con i bambini” ha finanziato nell’ambito del bando per il contrasto delle povertà educative. I giovani migranti accolti dalla cooperativa “Un’altra storia”, si recano regolarmente a scuola, raccontano le loro storie e dialogano con gli adolescenti seguiti dal progetto.
Le storie di H. J. ed A. B. hanno colpito nel cuore i ragazzi della 3D e sono state raccontate da Elisabetta Berselli, la loro insegnante di lettere. Riportiamo di seguito il testo della lettera:

“J. è in corridoio, prima di entrare si mette il cappuccio, lui che a diciotto ha attraversato il mar Mediterraneo su un gommone, ha bisogno di proteggersi da dei ragazzini…
Sono tutti seduti nei banchi, distratti, incasinati nella testa e nei modi come sempre, ma, quando entra, si ricompongono. Uno di loro ha preparato le sedie e si è ritagliato un posto in prima fila, è composto e attento.
J. è un po’ rigido, li guarda e sfodera un sorriso generoso, comincia a raccontare. Aveva diciassette anni quando ha lasciato la Nigeria.
H. J., diciassette anni.
Ha attraversato il deserto del Niger senza bere né mangiare per cinque giorni, ha visto gente bere da terra, nelle pozze d’acqua piovana, ma lui non ce l’ha fatta… É stato caricato su un camion, sdraiato, sotto di lui e sopra di lui altre persone sdraiate, è rimasto così, il più possibile immobile, facendo fatica a respirare per circa cinque ore e, quando è sceso in Libia, era come una bambola rotta e gli ci sono volute ore per riuscire di nuovo a camminare. Lì una signora che parlava il suo stesso dialetto lo ha accolto, sfamato e gli ha pagato il viaggio per l’Italia, per salvarlo dal business dei libici che sbattono in prigione gli stranieri e chiedono alla famiglie d’origine soldi su soldi per liberarli.
Mentre ricorda questa donna dice che parlava la sua lingua madre, mentre parla con i miei ragazzi si sforza di comunicare in italiano, e poi ci racconta del British English, ma gli brillano gli occhi quando ci spiega che, in Nigeria, si parla anche il pidgin English e che lui, quando adesso incontra un nigeriano, lo parla, velocissimo.
Non so perché, ma sono sicura che, se glielo chiedessi, lui mi direbbe che la solitudine si sconfigge imparando tutte le lingue del mondo.
Adesso A. entra in aula, come se fosse a casa sua, si siede, tiene basso lo sguardo, ma è chiaro che è uno capace di ascoltare…
J. va avanti, racconta di aver trascorso mesi in Libia, in quello che lui chiama un campo, racconta di essersi costruito un riparo con le foglie di palma, perché quando piove ti piove addosso e, quando c’è il sole, stai tutto il giorno sotto il sole; quando paghi per andare in Italia stai lì dei mesi e ogni volta che parte una barca ti chiamano, ti metti in coda e speri che sia il giorno in cui partirai. H. J. ha perso due gommoni, ma dice che è fortunato: il primo gommone che lo ha lasciato a terra è stato intercettato dalla polizia libica e sono stati portati tutti in prigione, il secondo non portò mai nessuno in Italia, erano circa ottanta persone. Ottanta persone morte. In mare. I loro corpi saranno dispersi, le loro famiglie non sapranno mai più nulla di loro. J. è salito su un terzo gommone, nonostante avessero finito la benzina in alto mare, dei salvatori italiani, come li chiama lui, lo hanno portato qui, con noi.
A. prende la parola, lui ci è stato in carcere in Libia: era solo, per strada, e l’hanno preso, picchiato, chiuso in carcere, gli dicevano: “dimmi il nome di tua madre” e lui non aveva nulla da dire, non sapeva davvero dove fosse sua madre. A. B., diciannove anni. Sierra Leone. È rimasto in carcere a lungo, dice ai ragazzi di essere stato picchiato e di aver subito altro di cui non vuole loro parlare, è uscito perché degli amici hanno pagato per lui, gli stessi amici gli hanno detto: “Ti mandiamo in Italia” e lui ha taciuto e ha obbedito. A. è salito su una barca nel 2017, ci spiega che le donne e i bambini vengono fatti sedere nel mezzo, mentre gli uomini stanno sui bordi. Fanno così gli scafisti. Sempre così.
La barca di A. è stata travolta dalle onde.
“Andava sotto e tornava su, i bambini sono morti subito, e poi le donne… ogni volta che tornava su vedevo persone morte”
Sono partiti in circa centotrenta, sono arrivati vivi, a Catania, in ventotto.
Adesso i miei ragazzi hanno gli occhi sgranati e con tanto, tanto rispetto pongono loro le domande che si sono preparati.”

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