Fare storytelling di un progetto socio-educativo per un video maker: quali apprendimenti, esiti, stimoli…?

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Nel 1984 Silvano Agosti, nel suo film «D’amore si vive», intervista Frank, un bambino parmigiano di 9 anni che parla in modo irriverente delle prime esperienze sentimentali, commentando l’atteggiamento malizioso degli adulti, e del regista stesso. L’effetto è comico ma anche dirompente e non è un caso che emerga durante un’intervista con un bambino. Ribaltare il punto di vista, l’intervistato che diventa intervistatore, il ragazzino che spiazza l’adulto: è ciò che succede in questo film e in tanto cinema documentario di qualità.

Sono ormai vent’anni che lavoro come regista e documentarista. In quest’ambito ho la fortuna di trovarmi anche a raccontare progetti sociali ed educativi del mio territorio e della mia città: Parma. Quel che mi resta di questo variegato percorso è principalmente la necessità, e in un qualche misura l’obbligo, di farmi sorprendere dalla realtà. Quindi, in sostanza, di avere sempre fiducia in essa.

Mi spiego, la realtà non è interessante a priori: qualsiasi esperienza umana per essere raccontata deve, in un certo qual modo, passare attraverso un processo di conoscenza, traduzione e sintesi. Analogamente, nel caso del video i processi sono essenzialmente tre: la scrittura, le riprese e il montaggio.

La scrittura, quando si ha a che fare con il reale, è soprattutto ricerca ma anche costruzione di senso, nonché d’immaginari e paesaggi visivi. Tutte ipotesi da confermare nelle fasi successive. Durante questi passaggi la trasformazione della realtà in qualcosa di “comodo”, da raccontare e quindi da capire, è un momento molto delicato.  E’ risaputo che il “tradurre” significa anche un po’ “tradire” l’originale.

Quello su cui ci si muove è un confine labile e complesso. Quando si ha a che fare con esperienze delicate come i progetti socio-educativi, il confine si fa ancora più sottile. Un vero e proprio crinale da cui si può precipitare in un attimo nel gossip, nella sfrontatezza o nella retorica. Questa complessità, tuttavia, rappresenta anche il fascino di cimentarsi in questo tipo di racconti, e una spinta costante a ripensarsi come autore, ma soprattutto come persona.

 

Gianpaolo Bigoli, documentarista del progetto Melting Pot

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