Maneggiare con cura: la “non ricetta” per la presa in carico dei ragazzi e delle loro famiglie
di chiromechino3
Fragili, complessi, delicati, ingarbugliati. I ragazzi sono spesso infinite sfumature di vite, mondi e sentimenti. Sono una materia da “maneggiare con cura” necessariamente. Ne sono convinti gli operatori del progetto “La Mia Banda è Pop” finanziato da Impresa Sociale Con i Bambini nell’ambito del bando “Cambio Rotta” che mette insieme diverse associazioni disseminate tra Napoli, Caserta, Avellino e Benevento in partenariato con il Ministero della Giustizia Minorile con gli Uffici Servizio Sociale Minori di Napoli e Salerno, l’Università degli Studi di Napoli Federico II – Dipartimento di Scienze Sociali e l’Università di Pisa, Dipartimento di Scienze Politiche. Il progetto, che è ai tre quarti del suo percorso, ha sperimentato e condiviso fin ora pratiche per la presa in carico dei minori in area penale. Tutti i partner si sono incontrati il 10 dicembre 2024 a Napoli, quartiere Scampia da Chikù, sede di chi rom e…chi no, associazione capofila del progetto, per fare il punto decidendo insieme di stilare un vero e proprio manifesto dal titolo appunto “maneggiare con cura” dove enumerare le “non ricette” per la presa in carico. Avete letto bene, si tratta di “non ricette” perché non esiste un modo univoco per una corretta ed efficace presa in carico ma sono tantissime le variabili. Ogni persona ha la sua “ricetta”, fondamentale però è pensare sempre a 360°. E il tipo di approccio, il confronto costante, l’ascolto tra gli operatori in questi anni di attività ha accresciuto queste consapevolezze. “Questa riflessione collettiva è molto importante per costruire un manifesto e fare in modo che un patrimonio che è molto prezioso e denso non possa concludersi con la fine del progetto ma possa rilanciare una dimensione politica, che vede al centro i ragazzi, non come carnefici del loro percorso ma come attori da essere ascoltati e considerati all’interno del contesto sociale e umano nel quale crescono, privo spesso di tante opportunità”, ha detto Barbara Pierro, presidente dell’associazione chi rom e…chi no.
Alla giornata hanno preso parte complessivamente 21 persone, tra cui 11 assistenti sociali (di cui una afferente ai SST e le altre all’USSM), 10 operatori dai territori di Napoli, Salerno, Benevento e Avellino e 3 conduttori, tra cui l’Università Federico II insieme a chi rom e…chi no, ente capofila del progetto. Ed è forse anche questa diversità tra i partner, le diverse professionalità e ruoli, la forza del gruppo che lavora per la creazione di progetti veri e affidabili per lo svolgimento della misura giudiziaria della messa alla prova, ma anche per l’accompagnamento dei giovani e delle loro famiglie nei passi all’indietro e in avanti che questa comporta, l’attivazione delle risorse sul territorio, la sensibilizzazione della comunità e la formazione degli operatori. “Quello che è emerso dall’incontro – ha detto Francesca D’Onofrio, Presidente dell’Associazione Orsa Maggiore di Napoli, coordinatrice del progetto la mia banda è pop – è la nostra forza come rete e come equipe di progetto. Il lavoro che abbiamo fatto in questi anni ha creato un processo e un modello che possiamo replicare e pensare di portare avanti nel tempo”.
Il progetto la mia banda è pop ha tre anni di vita. Di strada ne è stata fatta, camminando insieme, condividendo e mettendo in campo diversi tipi di risorse, tra progetti e attività tutte ‘cucite’ su ogni persona. “Parliamo di equipe che prendono in carico l’intero nucleo familiare – ha spiegato Daniela Diaspro, assistente sociale del Tribunale per i minorenni di Napoli, dipartimento di Giustizia Minorile – Lavorano sul contesto del ragazzo non sul singolo. La particolarità del progetto è che è di tipo ‘sartoriale’: per ogni ragazzo viene ‘cucito’ un mondo di esperienze, relazioni, attività di volontariato, riparative e quant’altro. Un progetto a tutto tondo che si prefigge di dare a questi ragazzi una risposta di sistema. Non una risposta al singolo caso ma di comunità, rispetto a minori che compiono reati”.
Il dieci dicembre tutti i partner del progetto si sono riuniti intorno ad un unico (grande) tavolo per attivare il confronto e la condivisione su temi e pratiche nevralgici, sottolineando, attraverso il passaggio per gli aspetti più critici, le strategie, individuali, di gruppo e collettive, percepite o rivelatesi più funzionali al raggiungimento degli obiettivi di progetto. Ed è qui che hanno iniziato ad elaborare le “non ricette” per la presa in carico sociale e collettiva della devianza minorile, in ottica di prevenzione e supporto. Si è parlato di tutti gli attori della presa in carico, dagli operatori ai ragazzi alle loro famiglie, raccontato storie, punti di forze e debolezza. E alla fine quelle storie raccontate erano di tutti, come se i ragazzi, utenti del progetto, fossero di tutta quella comunità riunita intorno al tavolo.
“L’idea emersa durante l’incontro è quella di creare un manifesto, un luogo dove far convergere e condividere le buone pratiche, gli elementi che ci guidano – ha spiegato Flavia Lizzadri, psicologa del gruppo chi rom e…chi no – Non abbiamo in mente delle linee guida, delle ‘ricette’ predeterminate per ottenere un risultato. Il nostro impegno si rigioca continuamente nella quotidianità e nella imprevedibilità dell’andamento dei percorsi insieme ai ragazzi e nella comunicazione tra enti diversi”. La psicologa ha spiegato che per tutti i partner del progetto è importante individuare dei punti cardine per la presa in carico senza dare mai nulla per scontato. Questi punti cardine diventano “continuamente oggetto delle nostre riflessioni, mai consolidati. Ci sono degli ingredienti, degli elementi su cui ci sembra importante confrontarci ma nella consapevolezza che il ‘quanto basta’ varia a seconda dei gusti e della situazione e che questa valutazione necessita di una grande sensibilità di gusto e di cura nella ricezione, nell’ascolto, nell’elaborazione a anche nella decostruzione dei nostri setting di lavoro predeterminati”.
La giornata di lavoro è stata improntata alla metodologia della ricerca-azione, calando direttamente i partecipanti nello svolgimento di attività laboratoriali di gruppo, per promuovere l’emersione dal basso di quelle “non ricette” indispensabili agli operatori. “In sottogruppi abbiamo esplorato la dimensione del tempo, della famiglia, della formazione e del lavoro, delle storie collettive e personali, dei contesti sociali e biografici e territoriali nelle diverse componenti”, ha spiegato Barbara Pierro. La giornata, aperta con un gioco di conoscenza e connessione, è stata organizzata in due sezioni: la prima dedicata alla condivisione delle criticità, che ha reso tutti meno soli e più forti, e la seconda al confronto per la ricerca di strategie efficaci nel promuovere dei validi processi integrati di presa in carico, attraverso l’interazione tra Servizio Sociale e Terzo Settore. Tempo, famiglia, lavoro e formazione, rete e comunicazione sono le parole chiave del successo. “Vogliamo provare a testimoniare che esiste una possibilità per questi ragazzi e che esiste un futuro possibile che può essere costruito attraverso la mediazione del progetto – ha concluso Francesca D’Onofrio – e che può riparare al danno che il ragazzo ha fatto nella società, verso se stesso o verso gli altri, anche costruendo un futuro migliore, per lui, la sua famiglia e per il territorio in cui vive”.
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