Comunità educante: la scuola da sola non può farcela… ma tutti insieme possiamo riuscirci!
di comunitadelgiambellino
Riflessioni sull’esperienza di docente referente ai servizi sul territorio (tra cui i progetti “QuBì” e “Giambellino C’è” e “SCooP“) della Scuola Secondaria di 1° Cardarelli-Massaua.
di Alessandra Orcese
Due parole su di me, anzitutto, un po’ per presentarmi e un po’ perché, quando mi sono domandata che cosa avrei potuto raccontarvi oggi [durante il visiting di Con i Bambini N.d.R.] per restituirvi qualcosa di concreto a proposito del lavoro di rete che stiamo facendo insieme per questo progetto, mi sono risposta che sarebbe stato utile ed efficace partire proprio dalla mia storia personale.
Ho iniziato a lavorare nella scuola solo quattro anni fa, dopo oltre trent’anni di onorata carriera nel mondo dell’editoria: ho progettato, scritto, tradotto, editato e corretto innumerevoli libri per ragazzi, lavorando all’interno di – e collaborando con – alcune fra le più note case editrici del settore. Un percorso molto vario e interessante, al quale sono arrivata però più per caso che per scelta; sin da ragazza, infatti, più di ogni altra cosa avrei voluto lavorare nel sociale solo che, per ragioni troppo lontane e complicate da condividere qui, non sono riuscita a intraprendere la strada universitaria che mi ci avrebbe condotta in modo più diretto e naturale.
A un certo punto il mio lavoro editoriale mi ha portato inaspettatamente a far parte di un team della redazione di “Topolino” che realizzava laboratori creativi nelle scuole di Milano, e in alcune occasioni particolari anche in giro per l’Italia. È stata quell’esperienza a farmi capire che mi piaceva molto lavorare non solo “per” ma anche “con” i ragazzi, insieme a loro proprio, gomito a gomito, se così si può dire. Ed è stato lì che ho deciso, all’alba dei miei 56 anni, di intraprendere il percorso formativo che mi avrebbe portata a diventare, in un tempo relativamente breve, docente di ruolo specializzata su posto di sostegno in una scuola secondaria di primo grado.
Al mondo della scuola mi sono affacciata piena di ideali e di sogni, forte di un percorso di formazione intenso e appagante, in un momento in cui la mia vita cambiava completamente non solo dal punto di vista professionale ma anche da quello familiare e abitativo: con il nuovo compagno, ora marito, e la nostra famiglia allargata mi ero infatti trasferita a vivere da Porta Venezia/Città Studi nel quartiere Giambellino-Lorenteggio, approdando come docente di sostegno alla scuola media Cardarelli-Massaua.
Il primo impatto è stato piuttosto scioccante, perché mi sono trovata a fare i conti con una dura realtà, didattica ma anche di contesto. Catapultata in un mondo a me sconosciuto, io stessa “straniera” in un quartiere pieno di “stranieri” e a me estraneo, costretta a venire a patti quotidianamente con un modo di fare scuola obsoleto e del tutto lontano da quello che mi ero immaginata studiando per il TFA di sostegno: là ti insegnano che la relazione empatica con ciascun alunno è tutto, che i programmi scolastici non esistono più dal 2012, che al centro del processo di apprendimento c’è l’alunno con i suoi bisogni e le sue potenzialità; qua, nella vita vera, mi sono ritrovata a cercare di essere una brava insegnante di sostegno in una classe in cui, fra disabilità e disturbi di apprendimento certificati, svantaggi di tipo socio-economico e culturale, problemi linguistici e comportamentali o di condotta, gli alunni cosiddetti BES – vale a dire con bisogni educativi speciali – erano più di due terzi del totale: decisamente troppi per un’insegnante di sostegno sola!
Malgrado la mia tesi di master si intitolasse “Perché diverso è più bello. Quando è proprio la diversità, di tutti e di ciascuno, a far la differenza”; malgrado la citazione di apertura fosse una famosa frase di don Milani che recita “Se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati”; malgrado avessi scritto, fra le altre cose, che una scuola davvero inclusiva considera chi è “diverso” una ricchezza e un valore aggiunto per tutta la comunità educante cui appartiene; malgrado tutto questo e malgrado le mie convinzioni più profonde restassero invariate… be’, tutte quelle differenze che mi trovavo davanti erano indiscutibilmente eccessive perché io potessi arrivare a prendermi cura di ciascuno di quegli alunni come avrei voluto, e soprattutto nel modo che ciascuno di loro avrebbe meritato.
Così, il primo pensiero di quella me stessa spaesata è stato: “Oddio, non ce la faccio! Non sono capace, ho sbagliato tutto, la scuola non fa per me…”. E il secondo pensiero, subito a ruota, probabilmente di autodifesa e per non soccombere del tutto, è stato: “Non sono io, che non ce la faccio: è la scuola che non ce la fa!”
Già! La scuola non ce la fa a relazionarsi con le nuove generazioni, perché usa una didattica ancora arretrata: la stessa identica che usavano i miei prof delle scuole medie, basata su libri di testo uguali a quelli su cui studiavo io cinquant’anni fa; una didattica puramente trasmissiva, che spesso ha ancora come unico obiettivo quello di “ingozzare” gli alunni di un quantitativo sempre maggiore di informazioni, come ben dice Daniela Lucangeli, pretendendone la restituzione mnemonica pedissequa, pena una valutazione negativa.
La scuola non ce la fa a gestire le tante situazioni di fragilità e di diversità che si trova davanti perché manca di spazi e di strutture adeguate e di risorse, umane ed economiche.
La scuola non ce la fa perché, a fronte di classi sempre più eterogenee e alunni tutti diversi gli uni dagli altri, gli insegnanti sono molto meno diversi dagli insegnanti di un tempo di quello che uno potrebbe aspettarsi leggendo la normativa scolastica degli ultimi vent’anni. Per fare inclusione sul serio, con tutte le differenze che ci troviamo di fronte oggi nelle classi in cui mettiamo piede, dovremmo cominciare a essere un po’ più “diversi” noi docenti, prima di tutto; ma non è così facile come dirlo, e tanto meno trovare colleghi disposti ad ammetterlo.
La scuola non ce la fa a creare relazioni costruttive con le famiglie a causa di una carenza di comunicazione interna, e non solo per gli oggettivi problemi linguistici che si possono rilevare in un quartiere come il nostro ma per una mancanza di comunicazione cronica che affonda le proprie radici nella fragile consistenza di un sistema organizzativo dispersivo, caotico e sfilacciato, resistente alla sola idea di un qualsiasi possibile cambiamento, abbarbicato alle false certezze di una burocrazia che è diventata sempre più fagocitante, oltre che soffocante per noi docenti, sempre più schiavi di relazioni da compilare e documenti da registrare.
Conclusione inevitabile? La scuola non ce la fa a salvare i tanti, troppi ragazzi problematici che, ogni singolo giorno che passa, noi docenti non riusciamo ad agganciare e finiamo col perderci, tristemente, per strada.
Poi un giorno, quasi per caso, il dirigente scolastico della mia scuola mi ha coinvolto nel Progetto QuBì come referente per i servizi sul territorio: occorreva, mi spiegò, una figura che facesse da ponte fra i bisogni reali della scuola, dei ragazzi e delle loro famiglie e tutte le realtà rivolte a loro esistenti nel quartiere, in modo da poter dare agli alunni e alle loro famiglie risposte concrete e, possibilmente, rapide ed efficaci a questi bisogni.
Ho scoperto così cosa voleva dire “fare rete” con il territorio e le infinite possibilità che esso offre, allacciando relazioni, umane e professionali, con persone che lavorano nel pubblico, nel privato e nel terzo settore. E, a poco a poco, ho cominciato a sentirmi meno sola e meno persa. Meno “straniera”, insomma.
Il mio terzo pensiero, allora, è diventato questo: “Da sola la scuola non ce la fa, ma tutti insieme sì che possiamo farcela, eccome!”
E quindi, cosa può fare di concreto la scuola oggi, per migliorare questa situazione oggettivamente così critica?
Anzitutto dobbiamo aprire occhi e orecchie, spalancare, metaforicamente, porte e finestre su quel che c’è fuori, diventare davvero una scuola “senza confini”, non rinchiusa su se stessa e lamentosa delle proprie difficoltà ma aperta e curiosa, che si impegna per conoscere il suo territorio. In primo luogo dobbiamo imparare a scoprire chi c’è, là fuori: doposcuola, spazi compiti, centri di aggregazione giovanile, biblioteche e librerie di quartiere, servizi sociali, associazioni sportive, consultori psicologici e familiari, centri di ascolto, mediatori culturali e qualsiasi altra cosa che potrebbe anche non venirci in mente qui e ora, mentre condivido con voi queste riflessioni estemporanee, ma che, se usciamo per strada e ci guardiamo intorno, potrebbe quasi certamente venire a interpellarci con una qualche nuova idea interessante.
E poi, in secondo luogo, dobbiamo imparare a interagire con chi c’è là fuori. Durante questi due anni di duro lavoro extra-didattico ho scoperto che appena fuori dalla mia scuola sofferente, che fa necessariamente fatica ad accogliere le – e a rispondere concretamente alle – infinite richieste di tutti, c’è un mondo di gente vera, di persone in carne e ossa che, a dispetto di quel mosaico di faccine virtuali grandi come un francobollo che tappezzavano il desktop del mio computer quando facevamo le nostre prime riunioni di rete online in pandemia, esistono per davvero e possono darmi una mano: persone che hanno un nome, un volto, una voce e anche un ruolo professionale, che posso chiamare in qualsiasi momento e con cui mi posso confrontare, a cui posso chiedere supporto e consiglio in tempo reale.
Nel giro di poco mi sono ritrovata coinvolta, pur mantenendo il mio ruolo di docente all’interno di una scuola statale, in tanti progetti diversi a favore dei minori, contro la povertà educativa, la segregazione e la dispersione scolastica, fra cui questo ultimo di Comunità Educante che mi ha condotta qui oggi attorno a questo tavolo a lavorare insieme a voi per la costruzione di un Patto Educativo di Comunità per il nostro quartiere Giambellino-Lorenteggio.
Prima di spendere due parole sui tavoli di lavoro e sulla loro utilità, vorrei però portarvi qualche esempio di cose che sono già successe, e che continuano a succedere tutti i giorni, nella mia scuola proprio grazie a questo prezioso lavoro, perché ci tengo molto a farvi arrivare il concetto che “fare rete” non è solo un mettere insieme parole al vento, ma è piuttosto un unire le teste e incrociare le competenze di tutti per dare una risposta molto concreta, molto efficace e molto rapida ai problemi reali di tutti i giorni.
Grazie al lavoro di rete fatto con il Progetto QuBì, in soli due anni alla scuola Cardarelli siamo riusciti a:
- far decollare operativamente un importante progetto di accompagnamento delle famiglie all’accesso spontaneo di primo livello ai servizi sociali, tramite l’aiuto del docente referente;
- avere il supporto costante di mediatori culturali per migliorare l’interazione con le famiglie degli alunni stranieri;
- instaurare un rapporto collaborativo di prossimità con la Cooperativa Sociale CDGiambellino, grazie a cui siamo riusciti, per esempio, ad agganciare alunni stranieri e le loro famiglie in attività associative e percorsi di formazione extrascolastici in modo che, anche loro “stranieri” come lo sono stata io su questo territorio sconosciuto, potessero sentirsi meno “stranieri” e meno soli e capire che fanno parte di una vera comunità;
- organizzare attività di orientamento e accompagnamento alla scelta del percorso di formazione successivo alla scuola secondaria di primo grado, con il supporto finale di uno sportello di affiancamento nel processo di iscrizione online per le famiglie più fragili;
- dirottare le famiglie sul servizio più competente per risolvere il problema contingente, grazie alla possibilità del docente referente di accedere a un file di rete condiviso contenente la mappatura di tutti i servizi territoriali; un file in cui compaiono i nomi dei referenti di ogni servizio e i loro contatti (da questo file abbiamo poi estrapolato anche una mappatura ridotta con tutti gli indirizzi, gli orari e i numeri di telefono aperti al pubblico, che abbiamo esposto in bacheca e sul sito della scuola e condiviso con lo sportello di ascolto della scuola stessa, che riceve ogni giorno decine di richieste di aiuto in ogni direzione);
- entrare in una “chat di whatsapp di quartiere” dedicata alla condivisione di eventi e progetti interessanti attivi sul territorio, offerte di lavoro e percorsi di formazione che possono interessare tutte e tutti;
- prendere parte a iniziative di formazione di alto livello per i docenti, come il recente corso della Cooperativa Edi Onlus sulla tutela dei minori;
- potenziare le attività dei laboratori per l’insegnamento di italiano L2 del PoloStart, che terminano purtroppo a dicembre, dirottando gli alunni più bisognosi su laboratori pomeridiani esistenti nel territorio limitrofo alla scuola.
Tutto questo solo per dire che fare questi tavoli di lavoro, come quello per la costruzione del Patto Educativo di Comunità di cui faccio parte, non significa perdere tempo e riempirsi la bocca di parole inutili e basta, ma trasformare un’idea di rete di persone in una collaborazione molto fattiva e concreta, con una fortissima valenza propositiva e progettuale che tante volte si attiva già il giorno dopo essersi incontrati.
Fare un tavolo di lavoro significa anche condividere criticità e ostacoli, ma non lamentandosi e basta perché, se da soli quegli ostacoli potevano sembrarci insormontabili, facendo brainstorming con le diverse competenze e i diversi ruoli professionali di chi sta intorno a quel tavolo spesso si accendono lampadine preziose che, magicamente, indicano una strada possibile e praticabile per la risoluzione di quel problema.
Fare un tavolo di lavoro significa conoscere altre persone, capire cosa fanno di mestiere e come potrebbero aiutarci a fare meglio; significa entrare in contatto con realtà del quartiere di cui fino a ieri nemmeno sospettavamo l’esistenza e poterle far conoscere ad altri; significa valorizzare e potenziare ciò che già esiste e funziona e imparare fare un nuovo tipo di comunicazione, non solo virtuale ma anche e soprattutto operativa.
Da ultimo: fare un tavolo di lavoro territoriale significa che un bel po’ di persone si ritrovano a lavorare insieme, non più da sole e non solo davanti a un computer; significa che molti cominciano a credere di nuovo che le realtà di quartiere possano diventare, per tutti i minori che le abitano e per le loro famiglie, punti di scambio, di incontro e di aiuto, un po’ com’era una volta.
E così, da quando sono docente referente per i servizi sul territorio ho finalmente ricominciato a sognare in grande, ritrovando quell’entusiasmo iniziale che temevo di aver perso per sempre. Sogno una scuola nuova, al centro del – e aperta sul – proprio territorio, una scuola che non vuole creare alunni perfetti capaci di restituire un miliardo di conoscenze a memoria; una scuola imperfetta, fatta di persone umane e imperfette, che desidera però ardentemente aiutare ragazzi altrettanto imperfetti a diventare i cittadini attivi e responsabili di domani.
Sogno una scuola di quartiere capace di diventare il catalizzatore, il centro nevralgico e propulsivo della progettualità attiva sul territorio rivolta ai minori, un posto in cui alunni e docenti possano recarsi tutte le mattine contenti e sicuri di trovarsi nel posto giusto per loro e sentendosi “a casa”. Sogno di poter davvero sperimentare in classe, prima di andare in pensione, una didattica innovativa e più vicina alle nuove generazioni. Sogno una scuola nuova che possa veramente attribuirsi, non da sola ma insieme a tutte le realtà con cui collabora sul territorio circostante, quel nome un po’ altisonante e ambizioso che è “comunità educante”.
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