Dugukolò, la pelle di una comunità

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Insegnare l’italiano ai migranti attraverso il corpo, la materia, le storie: un anno di laboratori nelle scuole di italiano di Asinitas, raccontati nel libro Dugukolò, mille volte mi è mancata questa terra

Lo scorso 14 gennaio, presso la sede del Centro Interculturale Asinitas, si è svolto l’incontro di formazione e presentazione del libro Dugukolò, mille volte mi è mancata questa terra, facente parte della collana “I libretti”, a cura di Asinitas. Il libro racconta un anno di didattica dell’italiano nella scuola di italiano per migranti, rifugiati e richiedenti asilo e nella scuola delle donne. L’evento è stato realizzato nell’ambito del progetto DOORS, con capofila Cies Onlus e selezionato dall’impresa sociale Con i Bambini.

Il libro, spiega Cecilia Bartoli, fondatrice dell’associazione, si mostra come “il tentativo di trarre riflessione dall’esperienza e di restituire a chi è stato un maestro e una maestra per Asinitas, una parte importante del lavoro, cercando di riflettere su quello che fa e di condividerlo con una comunità di persone che si occupa delle stesse cose, ovvero di formazione e cura delle persone straniere e dell’insegnamento dell’italiano”.

Due anni fa, nella Casa Laboratorio Cenci, poco prima della pandemia, ci siamo ritrovati, come Comunità di Asinitas, ad interrogarci sul nostro lavoro e di come lo facciamo, insieme al maestro Franco Lorenzoni. In quell’occasione abbiamo piantato quel seme che oggi ci ha portato fino a qui, realizzando questo libro che per noi rappresenta la prima messa in forma del nostro lavoro e una raccolta di pratiche, immagini, riflessioni di metodo e pensieri sulla scuola, soprattutto da un punto di vista laboratoriale. “La scuola è il cuore pulsante, il posto in cui costruiamo comunità con le persone”, afferma Cecilia Bartoli. Oggi, a distanza di due anni, tiriamo le fila di quel lavoro e ci rimettiamo in ascolto di quei maestri e di quelle maestre che ci hanno ispirato, insieme a chi da sempre ha sostenuto la scuola e la sua attività e a chi ci conosce per la prima volta.

Imparare con il corpo

Elena Zizioli, docente di pedagogia della narrazione e della pedagogia interculturale dell’Università di Roma Tre ed esperta in letteratura per l’Infanzia, parla dell’importanza dell’interpretazione di un testo, a dispetto della lettura strumentale, dal momento che “è attraverso di essa che si gioca il vissuto delle persone e la vera appropriazione di un testo, assumendolo dal nostro punto di vista”.

Quando si lavora con le narrazioni” continua, “si lavora sempre in una prospettiva interculturale, perché le narrazioni provengono da tutto il mondo e non hanno mai conosciuto confini”. La Zizioli sottolinea uno degli aspetti fondamentali presenti nel libro, ovvero la sua materialità. All’interno di esso, infatti, si possono ripercorrere i laboratori manuali espressivi degli studenti e delle studentesse, accompagnati dalle loro scritture, nell’arco di un tempo durato un anno. Il libro è suddiviso in sei capitoli, di cui quattro legati ai quattro elementi naturali, fuoco, terra, acqua e aria, ai quali sono stati accostati quattro bisogni o tematiche principali che, secondo la metodologia di Asinitas, sono propri delle persone che arrivano nelle nostre scuole di italiano: il bisogno di riconoscimento, di essere visto e chiamato per nome; il bisogno di recuperare le proprie radici e memorie elaborando la nostalgia del paese; il tempo dell’attesa, soprattutto dei documenti, nell’ingarbugliata rete della burocrazia italiana e del cambiamento, insieme all’esperienza del diventare madre; infine, il desiderio di futuro e di una vita che continua. Ogni sezione presenta le schede tecniche dei laboratori fatti in classe, che riportano i materiali utilizzati, la loro realizzazione e la consegna della scrittura personale a seguito di un testo input utilizzato, una poesia, una storia o un albo illustrato. In chiusura, l’assurda esperienza della scuola a distanza e poi il rientro in presenza con la scuola estiva, lo sguardo sul salone della scuola per rifugiati e richiedenti asilo che aveva vita ad Ostiense, vecchia sede che abbiamo lasciato proprio nello stesso anno della stesura di questo libro e la scuola delle donne sul territorio di Torpignattara, in cui adesso continuiamo a lavorare congiuntamente.

Come intermezzo, una finestra di metodo e la nostra idea di scuola, basata sul corpo e sul fare delle mani. I corpi fanno parte della nostra vita”, prosegue la Zizioli, “impariamo anche con il corpo, non solo con la testa. […] Ci deve essere il corpo nell’apprendimento, se proviamo emozioni positive impariamo meglio”. Senza di esso non può esserci un incontro e una conoscenza sincera dell’altro, è per questo che la sua espressione vale tanto quanto quella della lingua. Un altro aspetto che emerge è quello della comunità. Una persona che lascia il proprio paese d’origine, seppur da solo, in realtà non lo è mai completamente perché porta con sé un patrimonio enorme che è quello della sua comunità e della sua rete di relazioni. “C’è un aspetto sociale dell’apprendimento che tendiamo a dimenticare, ma che è fondamentale”, dice la Zizioli. La scuola di Asinitas ha anche questo come obiettivo, quello di mettere in luce le relazioni delle persone e di intesserne di nuove, capaci di rendere significativa la nuova esperienza in Italia, inserendosi in una comunità e di essere in dialogo con essa. Dunque, per la Zizioli, sono tre gli aspetti fondamentali che emergono in Dugukolò: le storie, i corpi, le materie.

La lingua figlia

Il secondo intervento è quello di Alessandro Triulzi, docente dell’Università Orientale di Napoli, esperto del Corno d’Africa e di storia orale. Ad Asinitas ha fatto un grande lavoro di ascolto e raccolta delle storie degli studenti e delle studentesse, con il progetto Archivio Memorie Migranti. Triulzi parla del libretto come testimone di un’esperienza. Ed è proprio facendo esperienza, anche con le mani, che si può lasciare una traccia, un racconto tangibile di sé. Attraverso una molteplicità di linguaggi, la scuola di Asinitas tenta di dare forma alla storia di ciascuno, anche quando c’è pochissima lingua. In un gioco di trasformazione del mondo, è dunque possibile dare senso anche ai racconti più indicibili.

Triulzi continua ponendo un accento sull’unicità di una “scuola di donne, fatta da donne, per le donne”: ne sottolinea la forza, l’intimità e la dimensione comunitaria, ricordando le donne madri di Plaza De Mayo, in Argentina, che tutti i giovedì pomeriggio vanno a ricordare i loro figli caduti. Qualcuna, una volta, disse: “I nostri figli ci hanno partorito. Noi abbiamo imparato dai nostri figli”. Sono i figli e le figlie dunque, a riconsegnare alle madri un altro modo di essere presenti nel mondo con una nuova lingua, che ora diventa la lingua familiare. Bambini e bambine nate in Italia, che frequentano la scuola in Italia e che insegnano ai propri genitori la nuova lingua, altra dalla lingua madre, diventando così una lingua figlia, la lingua dell’intimità, della casa, della famiglia e dell’affettività.

La materia e il desiderio

Infine, Franco Lorenzoni, maestro con cui torniamo a confrontarci e dal quale siamo partiti quella famosa sera a Cenci. “Prima del linguaggio c’è la materia. Gli elementi vengono prima del linguaggio e perché sono più antichi ci aiutano a entrare in un modo profondo nel linguaggio”. Il discorso sulla lingua utile e sulla lingua di una narrazione autobiografica in cui a prevalere è il bisogno di esprimersi e di raccontare è uno snodo che rappresenta una delle sfide più grandi nelle nostre classi di italiano. Lorenzoni parla di una lingua che possa essere corpo, esperienza ed identità. “Una nuova lingua, se non affonda le sue radici nell’altra, quella in cui mi riconosco, non funziona, la imparo peggio”, afferma. Lorenzoni sostiene quanto sia importante rintracciare quella scintilla capace di riaccendere un desiderio che, in quanto tale, è sotto la continua minaccia di spegnersi. La scommessa è quella di lasciar parlare le mani che “sono più democratiche della testa”, attraverso un’accurata ricerca di bellezza dei materiali, in un lusso estetico in contrapposizione alla marginalità e alla povertà educativa, sempre troppo pressante. Lorenzoni parla del ruolo dell’educatore come un “costruttore di trappole”. Centrale, nel lavoro dell’insegnante, è quello di saper ascoltare senza aspettarsi dei risultati precostituiti avendo la presunzione del controllo. Bisogna mettere in connessione corpo e mente, solo così questo ascolto può diventare elemento catalizzatore e generatore di discorso.

La lingua deve poter essere espressa liberamente senza doversi trovare a un bivio giusto-sbagliato, ma con la possibilità di percorrere una propria strada, combattendo l’idea di una mera lingua strumentale. Si può insegnare la lingua da colonizzatori o da alleati, a noi la scelta. Abbiamo voluto chiamare questo libretto Dugukolò, una parola che in bambara significa “suolo” o “terra”. Il bambara è una delle tante lingue delle studentesse e degli studenti che passano per le nostre scuole di italiano: “Dugu significa villaggio, kolo significa pelle, pelle di qualsiasi cosa”, ci ha spiegato Mahamadou Kara Traore, ex studente della scuola di Asinitas. “Quando tu ammazzi un animale e gli togli la pelle, quella pelle si chiama kolo. Dugu, villaggio, kolo che è la terra, la zona, il terreno per coltivare, la pelle del villaggio”.

Il libretto è rivolto ad educatori, operatori, mediatori culturali e insegnanti.

Dugukulò. Mille volte mi è mancata questa terra, è a cura di Laura Ciavardini, Luca Lòtano, Federica Mezza e Giorgio Sena. Il progetto grafico è di Maria Chiara Guadagnoli e Federica Mezza.

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